domenica 19 gennaio 2014

Denti come causa di malattie era già noto nei secoli passati?

Un problema molto comune nel diciassettesimo e diciottesimo secolo erano i denti consumati dalla carie che dopo qualche disagio sembrava che non dessero più fastidio e quindi venivano lasciati stare in bocca. Due autori del 700, il famoso Pierre Fauchard (1728) e il chirurgo generale dell’esercito inglese John Hunter (1771), segnalarono numerose guarigioni da reumatismi, malattie di occhi, orecchie e sistema nervoso ottenute grazie alla bonifica della bocca da questi denti. Anche il celebre Christopher William Hufeland (1762-1836) parlò di questo spiegando che una bocca sana, liberata dai denti con carie profonde era l’unica possibilità di arrivare a vivere a lungo.



Goethe (1749-1832) s’interessò agli insegnamenti di Hufeland dopo che una malattia che sembrava mortale fu risolta dall’estrazione di un dente infetto. Tutti i tentativi precedenti di terapia avevano fallito. Il Goethe visse altri 64 anni dopo quell’incidente, arrivò all’età di 83 anni completamente sdentato, seguendo perciò il consiglio di Hufeland di togliere i denti infetti man mano che si presentavano (Neuhauser 1982, Hufeland 1797, Holz 1939, Greiter 1958). Un altro esempio sotto gli occhi di tutti è quello di Mozart (1756 – 1791) che un anno prima della sua morte ebbe alcuni ascessi dentali che non furono trattati con l’estrazione. Ciò ha forse potuto contribuire sia ad una recidiva dei reumatismi che al decorso estremamente sfavorevole della sua malattia. Mozart aveva ancora dieci denti al momento della sua morte, di cui tre denti con carie profonda, non estratti e nemmeno trattati (Bär C., “Mozarts Zahnkrankheiten”, Acta Mozartiana 9, 1962, 3, pp.47-54). “Per secoli,” scriveva John Hunter (1771), “i medici hanno dovuto prendere atto del fatto che i denti con la loro struttura particolare sono suscettibili di diventare la sede di piccole lesioni croniche infiammatorie localizzate che danno luogo a disturbi sistemici incredibilmente seri, anche quando localmente nella bocca il disturbo infiammatorio sembra quasi inesistente.”

Nell’arco dei 150 anni che seguirono troviamo segnalate nella letteratura medica del tempo all’incirca 25.000 – 30.000 osservazioni simili, per esempio la guarigione da una sordità fulminante nel momento dell’eruzione di un dente del giudizio (J.G. Pasch 1775) e il ritorno del flusso mestruale in una donna che per anni non ne aveva avuto, ottenuto grazie all’estrazione di un dente con carie profonda (Willich 1778). Delaroche (1798) riportò un caso simile in una donna che soffriva di mestruo molto scarso con sintomi d’infiammazione gengivale dal lato destro, e ciò solo in corrispondenza dell’arrivo di queste scarse mestruazioni. Andando a valutare la salute della bocca, il medico scoprì dei denti cariati in profondità la cui estrazione fece anche scomparire definitivamente le anomalie del mestruo.
E arriviamo al 1801: epilessia, dermatiti, problemi digestivi, mal di testa e artriti venivano guariti con l’estrazione dei denti infetti dal Dr. Benjamin Rush, firmatario della dichiarazione d’indipendenza. Egli scriveva: “Le terapie delle malattie croniche diventano molto più soddisfacenti se vengono associate alla bonifica di tutti i denti infetti che uno trova nella bocca dei pazienti.” Per esempio Rush ci dice che fu consultato dal padre di un giovane di Baltimore che soffriva di epilessia, subito si informò sui denti e risultò che molti di quelli sull’arcata superiore avevano carie profonde. La loro estrazione infatti portò ad una perfetta guarigione. Oppure la signorina A.C., affetta da reumatismo all’anca già da alcuni anni, aveva avuto di recente un grave peggioramento ed era comparso anche un leggero fastidio ad un dente. Rush prontamente le consigliò di far estrarre questo dente e fu così che i sintomi scomparvero del tutto. Rush era assolutamente entusiasta su tutta questa discussione che le patologie dei denti potessero rivelarsi così spesso la causa di malattie apparentemente inguaribili ed invocava a testimoni i numerosi autori che lo avevano preceduto.
Uno dei primi sforzi “moderni” di classificare la scienza dentale risale ad un importante chirurgo tedesco, Fabricius Hildanus (1560-1634), che nel suo manuale segnalava centinaia di testimonianze di emicranie e malattie sistemiche che erano state guarite estraendo denti cariati in profondità, laddove tutti i rimedi usati in precedenza non avevano apportato il benchè minimo beneficio. Nicolas Tulp (1593-1674), un rinomato medico di Amsterdam esperto di anatomia, osservò che le malattie dei denti potevano dare origine alle conseguenze più nefaste, persino essere causa di morte. Dopo di lui Charles St. Yves (1667-1733), Marcello Malpighi (1628-1694) e Frederik Ruysch (1638-1731) si distinsero per le loro indagini sui denti e le loro osservazioni che i denti malati potessero diventare la causa di vari tipi di patologie nell’organismo. Stiamo parlando dei più illustri medici dell’epoca. Nathaniel Highmore (1630-1690) descrisse parecchi casi di sinusiti che guarivano dopo l’estrazione di denti con carie profonde. Christopher Schelhammer (1649 -1719), che fu professore di anatomia in diverse università tedesche, specializzato in malattie delle orecchia, notò che poteva assicurare una guarigione solo a quei pazienti che accettavano di curare le carie superficiali ed estrarre i denti con carie troppo profonde. Giorgio Baglivi, medico di Innocente XII e Clemente XI, autore di manuali medici famosissimi, osservò nel suo Canone di Medicina: “Le persone i cui denti hanno un cattivo odore o che hanno cambiato colore nonostante i lavaggi giornalieri, hanno sempre una debolezza della funzione dello stomaco, quasi sempre una tendenza all’indigestione, mal di testa dopo i pasti, una salute generale poco soddisfacente e una tendenza al malumore. Se impegnati nello studio o negli affari, queste persone sono impazienti ed irritabili, oppure vittime di episodi di capogiri. Le frequenti indisposizioni di stomaco danno loro sonnolenza, risveglio lento e comunque un sonno poco ristoratore.” (Baglivi, Opera Omnia Medico. Practica et Anatomica, Lugduni, 1710).
Se facciamo ancora un passo indietro nel tempo, Ippocrate (460 – 375 a.C.) segnalò numerosissimi esempi in cui la patologia dentale aveva l’effetto d’iniziare reazioni in altre parti del corpo. Per esempio affermò che “un reumatismo che resisteva ai tentativi di guarigione poteva essere eliminato estraendo eventuali denti compromessi” (On Epidemics, Hb. ii, section i, p. 1002). Il più famoso medico di tutti i tempi aveva le idee chiare e infatti dichiarò che la maggior parte delle suppurazioni focali causate dai denti provenivano dalle infiammazioni create dai denti del giudizio. Per esempio nel caso di un ragazzo che aveva dolore in un terzo molare dell’arcata inferiore destra, Ippocrate si diceva sicuro del ruolo causale di quella situazione dentale sulla suppurazione a carico dell’orecchio dello stesso lato. Anche di recente numerosi autori, confrontando mandibole dall’antichità ad oggi, hanno spiegato che i denti del giudizio sono un attavismo – derivato da un’epoca quando il muso dei nostri antenati era più lungo, mentre oggi invece il dente del giudizio purtroppo spunta sul ramo ascendente della mandibola (Adler 1972, Mieg 1999, Lechner 1991, Grossman 1996). Non solo a volte il dente del giudizio non spunta proprio fuori ma, quando lo fa, spesso si presenta con un anomalo grado di inclinazione oppure comunque soffre la mancanza di spazio e in vari modi ciò crea situazioni croniche d’infiammazione locali e focali (vedi: http://www.medicinenon.it/tutte-le-terapie-falliscono-valutazioni-sui-denti-del-giudizio ).
Ippocrate si rifaceva in realtà alla tradizione di Esculapio, che rimase in vigore tra il 1100 a.C. e il 400 d.C. e che inizialmente veniva praticata solo dai sacerdoti dei templi esculaplei, per esempio quelli di Epidauro, Cos, Cnydus, and Rodi, mentre in seguito fu ripresa anche da guaritori non sacerdoti. Ippocrate operava al tempio di Cos. Un altro argomento affrontato era il contributo infiammatorio notevole apportato dai periodi di dentizione difficile nei bambini che poteva far insorgere problemi in numerose diverse parti dell’organismo. Quest’idea in realtà, accennata da Omero nell’Odissea, apparteneva anche ad Esculapio ed è stata descritta dalla letteratura di ogni epoca, dagli scritti in India del 1000 a.C. fino a Soranus di Efeso (117 d.C.) e ai medici del diciassettesimo secolo. Questa osservazione ricorrente su disturbi a distanza che vengono innescati da un’infiammazione nella bocca evidentemente venne accolta dal modus operandi olistico di Esculapio che spesso chiamava in causa la “forza vitale”.
In questo testo ci dobbiamo accontentare di seguire alcuni aspetti del discorso nelle parole di Ippocrate, che sono più concrete e che ci vengono da fonti dirette, perché tutte le fonti che citano l’approccio olistico di Esculapio sono così entusiaste da apparire miticizzate. Nello stabilire la diagnosi di una malattia, Ippocrate consigliava di cercare il suo punto di partenza. Per esempio se si trattava di mal di testa, di disturbi alle orecchie o agli occhi, o di un qualsiasi sintomo su un lato solo del corpo, insisteva che la causa poteva essere spesso rintracciata in qualche infiammazione nelle aree dei denti. La famosa massima ippocratica, “le malattie dovrebbero essere combattute alla loro origine”, esprime proprio questo modo di pensare.
Ippocrate aveva l’abitudine di fare osservazioni a 360° prendendo una gran quantità di appunti, proprio perché cercava di capire quale “spina irritativa” potesse essere la più rilevante nel caso specifico, la fonte degli “umori dannosi” che stavano invadendo l’organismo e creando il disturbo. La valutazione dello stato dei denti era preponderante, un elemento onnipresente nella sua indagine. Tutti i medici ippocratici dell’antichità avevano questo punto di vista, come per esempio Erofilo e Erasistrato, illustri dottori della scuola medica di Alessandria (300 a.C.). Interessante anche notare che il famoso enciclopedista e ricercatore medico romano, Aulo Cornelio Celso (25 a.C. – 50 d.C.) non fece altro che tramandare la tradizione medica ippocratica. Apprendiamo da Celso che i denti che causano il ritiro delle gengive sono morti e il terapeuta che non li prende in considerazione non riuscirà a far guarire i suoi pazienti. Detto in altre parole, “A tutti quelli che non conoscono la causa della malattia, risulterà anche impossibile curarla”. Secondo quanto spiegava Ippocrate, Celso coniò la famosa frase: “rubor, tumor, calor, dolor, functio lesa” (ripresa da Galeno, che nel 200 d.C. scrisse tre libri di commentari su Ippocrate), che descrive nell’ordine: (rubor) foci infiammatori, (tumor) rigonfiamento, concentrazione e perimetrazione di un focus di metaboliti infiammatori, (calor) la reazione primaria del sistema immunitario, (functio lesa) una fase tardiva, cronica, caratterizzata dalla degenerazione del tessuto invaso a distanza quando il sistema immunitario è sfiancato e meno efficiente.
Sfortunatamente nei secoli ci si dimenticherà quasi del tutto l’incoraggiamento di Ippocrate sulla necessità d’indagare la presenza nell’organismo di siti primari di infiammazione o di putrefazione localizzata, come per esempio l’interno dei denti compromessi, che diventa il fattore causale di disturbi a distanza, prima indebolendo le difese del sistema di regolazione e poi trasmigrando in altri siti secondo meccanismi di locus minoris resistentiae.
Questo modo di pensare sui denti lo ritroviamo anche in pieno medio evo, presso i guaritori naturali. La loro diagnosi partiva dalla bocca e la guarigione veniva coadiuvata da cambiamenti di alimentazione, impacchi e tisane con fitoterapici specifici per risvegliare la presenza dell’organismo nelle parti ammalate. Anche i professori delle prime università di medicina raccomandavano l’estrazione dei denti malati per la cura delle patologie degli occhi e delle orecchie e di altri organi distanti (Ambroise Pare, 1517-1590, Giovanni Andrea Della Croce, 1533-1603, e Pieter van Foreest 1522-1597). Questi autori erano finanche a conoscenza del fatto che numerosi malanni potevano essere fatti risalire a qualche frammento di radice rimasto nell’osso mandibolare nel corso di precedenti estrazioni dentali.
Nel 1838 il Dr. Shearjashub Spooner scriveva: “Non credo sia il caso di dubitare ancora che le malattie dei denti siano in grado di causare dei disturbi fisici a distanza e possano contribuire allo sviluppo di malattie sistemiche croniche.” E citava oltre alle sue osservazioni personali una quarantina di esempi di simili guarigioni pubblicati da Leonard Koecker in “Grundsätze der Zahn-Chirurgie” (Weimar, 1828). Fu proprio negli anni seguenti che ci fu lo scisma ufficiale e definitivo tra medicina e odontoiatria. Nel 1851 il prof. Thomas Bond, dell’Università di Baltimora, era protagonista di un ulteriore tentativo di ricucire la disattenzione crescente dei medici su questo argomento invitandoli a “non sottovalutare la patologia dentale come causa di difficoltà organiche a distanza, come invece sta accadendo oggi che facciano i più.” Per quanto in questo periodo ci siano ancora molti autori interessati a questo tema, significativo è il seguente passaggio di Samuel Fitch, autore di “System of Dental Surgery” (1827): “Voi mi direte, com’è possibile che la correlazione tra patologie dentali e malattie sistemiche, se è vera, sfugga all’attenzione della più parte dei medici? Ebbene dovete sapere che gli insegnamenti sui denti da alcuni decenni sono stati tolti dal curriculum formativo dei medici, dopodiché questi generalmente non hanno la curiosità di valutare l’argomento in relazione alle malattie che sono già impegnati a curare con un folto arsenale di sostanze.”
Fitch tra le altre cose raccolse un’ampia casistica sulle infezioni dentali come fattore decisivo nello sviluppo della tubercolosi. Anche Leyden (1867), Fuller (1881), Jaffe (1886) e Israel (1886) segnalarono diversi casi di tubercolosi polmonare che guarivano in seguito all’estrazione di denti compromessi. Ungar (1884) richiamò l’attenzione alla caratteristica ulcerazione delle gengive, che nel caso specifico di un suo paziente tubercolotico nasceva proprio da un dente cariato in profondità. Il dente sospetto fu rimosso ottenendo un sorprendente recupero delle condizioni di salute del paziente.
Già Areteo di Cappadocia aveva descritto una considerevole infiammazione della gengiva nel primo caso di tubercolosi mai consegnato alla storia nel 1° secolo d.C. (De causis et signis diuturnorum morborum).
William Duke nel suo “Oral sepsis in its relationship to systemic disease” (1918) invitava i suoi colleghi a trattare la tubercolosi e i casi di tabes dorsalis con la bonifica delle infezioni dentali, perché queste potessero essere la causa principale o comunque un co-fattore decisivo nel decorso di queste malattie. Anche il celebre chirurgo francese Antoine Petit aveva pubblicato nel 1750 alcuni casi di guarigione di tubercolosi di lunga data ottenuta in seguito all’estrazione di denti malandati. Il Dr. Gater (1801) oltreoceano quotava nel 1801 due casi di guarigione, uno da consunzione ed un altro da vertigine, entrambi che duravano già da parecchi anni, con l’estrazione semplicemente di due denti mal messi.
Nel 1848 si distinse per delle segnalazioni nello stesso ambito il Dr. Mayo Smith: “Molti pazienti vittime di consunzione polmonare pagano delle fortune per curarsi, per fare lunghi soggiorni termali oppure per viaggiare magari in assolate isole del mediterraneo. E però queste ed altre spese mediche al più rallentano solo leggerissimamente la progressione della malattia senza fermarla. D’altro canto le mie osservazione cliniche mi dicono che la maggior parte di questi pazienti avrebbero semplicemente bisogno di essere inviati da un bravo dentista per estrarre i denti compromessi che stanno contribuendo alle loro sofferenze, alle loro spese mediche e in pratica ad una loro morte prematura.

1 commento:

BANNER

ADD/THIS

Bookmark and Share
webso OkNotizie